Carissimi,
mi ritorna
in mente la filastrocca che cantavano alcuni vecchietti poveri del mio rione
nella prima metà del Novecento “mo’ vene Natale, ‘u ttegnu dinari; mi pigghiu
a pippa e mi mittu a fumari”! (Adesso
arriva il Natale, non ho denari, mi prendo la pipa e mi metto a fumare!). Per
dovere di cronaca, nel 1959 Renato Carosone compose il testo “mo’ vene Natale”. L’artista napoletano
sostituì o inventò di sana pianta la seconda parte della filastrocca con << me leggio ‘o giurnale e me vado ‘a cucca’ (dormire) >>. Queste
strofe, in apparenza insignificanti, si prestavano invece a tante
interpretazioni, senza stravolgerne il significato originale. La canticchiavano
quei signori anziani poveri in canna, ma assai ricchi di spirito
nell’approssimarsi delle festività natalizie. Non erano arrabbiati contro il
Cielo e contro il mondo per la loro povertà e l’impossibilità di preparare un
buon pranzo natalizio; erano certi della magnanimità disinteressata dei loro
vicini. A quel tempo, si viveva a misura d’uomo e la solidarietà era spontanea in
quanto andava, comunque, a buon fine, conoscendosi quasi tutti nel rione; non
c’erano profittatori. Le condizioni economiche erano sotto gli
occhi di tutti! Una mano amica era sempre tesa non per pietà, ma per fratellanza
per non calpestare la dignità e l’orgoglio di quei “fumatori di pipa”. Essi aspettavano fiduciosi e rilassati che
qualcosa di buono potesse accadere. Quei signori non soffrivano di solitudine e
di indifferenza in quanto una parola di conforto e di vicinanza e un piccolo
dono materiale arrivavano portati dalla Provvidenza, che non abbandona mai coloro
che credono e non perdono la speranza. A Natale, un via vai di piatti, portati con
circospezione dai bambini per non mettere in imbarazzo i destinatari, giungeva
in quelle case risapute misere per assicurare un pranzo decente nella Festa più
importante dell’anno. Ricordo anche che una mia vicina di casa in quella
occasione solenne apparecchiava un posto in più e lo lasciava vuoto. Le chiesi
con innocenza: Maria, hai sbagliato a
contare, dato che conoscevo il numero dei componenti della sua famiglia! No, mi rispose con un sorriso compiaciuto!
Lascio sempre volutamente un posto apparecchiato perché all’improvviso potrebbe
presentarsi alla porta, senza invito, qualcuno senza una famiglia alle spalle.
Quel qualcuno spesso arrivava come spinto da un segno celeste o meglio perché
si era sparsa la voce dell’esistenza di quella benefattrice; quella casa
benedetta per un giorno faceva felice un povero. Sembra una storiella inventata,
ma non lo è, perché non è nell’ottica del vivere attuale estendere un invito a
tavola a degli sconosciuti. Eppure sono certo che anche tra noi, oggigiorno, ci
siano “fumatori di pipa”, come appena
spiegato, che sono invisibili o che riescono a mascherare bene la loro realtà
con grande dignità e uno smisurato orgoglio. Dice un detto che è
meglio compatire che essere compatito; questa massima allevia il disagio di manifestare un’umile
condizione sociale. Per tante persone il Natale è un momento di tristezza perché
vedono intorno abbandono ed emarginazione, a differenza di quei fortunati fumatori di pipa. Sono pochi coloro che
si accorgono dei bisognosi, anche di affetto; spesso i più indifferenti girano
la testa dall’altra parte. Occhio non vede, cuore non duole! Ma
la coscienza riesce a vedere oltre il pensiero se c’è la volontà di vedere. I
primi fumatori di pipa facevano buon
viso a cattiva sorte perché avevano un animo sereno e confidavano nell’aiuto di
Dio che ispirava le menti dei loro contemporanei. Direbbero agli odierni titubanti
di non fare di ogni erba un fascio perché ne pagherebbe il giusto al posto del
simulatore e di immedesimarsi per capire che la sofferenza non ha colore, come
le lacrime. Alla fine, cuor contento Iddio l’aiuta e gli dà
la forza di reagire e di scalare quel muro che gli sottrae la visuale. Nulla è impossibile al Signore!
Buon Natale di
pace e di serenità!
Carmine
Scavello